
Ad oggi manca una definizione giuridicamente vincolante di “allevamento intensivo” e le descrizioni che ne vengono fornite sono soprattutto di natura tecnica. Si tratta di un vuoto normativo o di un’esigenza regolamentare?
A che serve la legge? Può sembrare una domanda banale e retorica, ma che, in realtà, dovremmo porci più spesso.

La legge regola la condotta degli individui e della società, affinché si realizzino gli obiettivi che rientrano nel progetto di una determinata forma di governo; è innegabile che, nel nostro Paese, con il passaggio dalla dittatura alla monarchia e da questa alla democrazia, la fine della seconda guerra mondiale abbia segnato un cambiamento piuttosto radicale degli obiettivi, individuali e collettivi, che la nuova forma di governo ha delineato grazie alla Costituzione ed alla revisione dell’ordinamento vigente.
La legge, quindi, accompagna una società, la descrive e si modifica, cambia, a seconda di come quella società si modifica e cambia. Raramente la legge anticipa i tempi: li segue, più o meno tempestivamente, producendo nuove norme per regolare nuovi fenomeni, o modificando le norme esistenti quando diventano inadeguate al mutato clima sociale e culturale.
Naturalmente, si tratta di meccanismi complessi, che hanno risvolti e riflessi su ambiti diversi e cruciali per una collettività. Ad esempio, regolamentare un’attività economica significa poterla filtrare attraverso la legalità, affinché non danneggi le persone, il mercato e non produca profitti illeciti.
Prendiamo il caso dell’allevamento di animali destinati alla produzione di alimenti.
Volendo semplificare i termini del discorso, la legge riconosce, da sempre, l’allevamento del bestiame per la sua funzione economica ma, mentre nelle epoche passate il legame di tale attività con il fondo agricolo era naturale, dalla seconda metà del ‘900 non è più stato così e l’allevamento ha assunto sempre più la connotazione di un’attività imprenditoriale di cui il legislatore si è dovuto occupare con interventi normativi importanti.

Ma quale legislatore? Soprattutto quello europeo, con il quale il legislatore nazionale si è necessariamente “armonizzato”, per usare un termine cardine della politica della Comunità Europea prima e dell’Unione Europea poi. Quest’ultima è la versione matura del mercato comune (che è alla base del diritto europeo e che è servito per risollevare l’economia dell’Europa del secondo dopoguerra) e svolge il ruolo che gli Stati membri le hanno delegato: garantire la stabilità politica attraverso la forza economica.
Se si hanno presenti questi obiettivi, non stupisce l’assenza di una definizione giuridica dell’allevamento intensivo, per distinguerlo da quello brado o estensivo; l’ordinamento europeo non ne sente l’esigenza, poiché si tratta di definizioni di tipo descrittivo che non influiscono sulla loro liceità. Infatti, nella misura in cui l’allevamento rispetti le norme stabilite per il benessere animale, per la salute pubblica, per le emissioni, per lo smaltimento dei liquami, eccetera, il diritto non ha la necessità di qualificare ulteriormente l’allevamento, perché non può limitare o compromettere un comparto essenziale per l’economia dell’Unione, a meno che non vi siano evidenze di danni per la salute pubblica, per l’ambiente, per il mercato e, quindi per l’economia, tali da intervenire sul dettato normativo ed attuare nuove regole.

Dunque, quello che prima facie sembra essere un difetto di chiarezza legislativa è invece un risvolto del pragmatismo che caratterizza il diritto europeo, per cui la definizione giuridica dei diversi tipi di allevamento può essere motivata unicamente dall’inadeguatezza degli medesimi parametri a qualificare il benessere degli animali in allevamento, la salubrità degli alimenti che ne derivano e l’impatto sull’ambiente.
In altri termini, se si vuole giungere ad una definizione giuridicamente vincolante di “allevamento intensivo”, occorre lavorare su quei segmenti del diritto europeo che fissano i parametri della liceità in zootecnica, ad esempio dimostrando la loro insufficienza o dimostrando un impatto diverso e dannoso per gli obiettivi di tutela della salute, del benessere in allevamento e dell’ambiente, che la legge persegue.
Avv Daria Scarciglia